Una crescita che c’è ma non si vede
Sulla carta l’Italia cresce poco. I numeri sembrano raccontare una nazione in affanno, rallentata da un’economia che non decolla. Ma è davvero così? Sempre più analisti ed economisti mettono in dubbio questa narrazione, puntando il dito contro un nemico silenzioso ma potente: la sottostima del PIL. Dietro le percentuali fredde dei bollettini statistici, si nasconde un Paese che produce più valore di quanto i dati ufficiali riescano a registrare. E il problema non è nuovo, ma si fa ogni anno più urgente.
La trasformazione invisibile della ricchezza
L’economia italiana — come tutte le economie avanzate — è cambiata. Meno industria pesante, più servizi, più digitale, più immateriale. Il valore oggi si crea nel software, nella consulenza, nei contenuti, nella creatività. Settori dove non si producono beni tangibili, ma si genera valore economico reale. Il problema? Le statistiche ufficiali non riescono a intercettarlo con la stessa precisione con cui misurano una macchina prodotta in fabbrica.
Ecco perché negli ultimi anni Istat ha rivisto più volte al rialzo i dati sul PIL, anche di oltre il 2%, ammettendo che le prime stime spesso non tengono conto di porzioni crescenti dell’economia. Una realtà che non riguarda solo l’Italia, ma che qui ha un impatto particolarmente forte.
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Quando i numeri arrivano in ritardo
Nel settembre 2024, l’Istat ha rivisto al rialzo il PIL italiano del 2021 e del 2023, rispettivamente dell’1,1% e del 2%. Sembrano percentuali piccole, ma equivalgono a decine di miliardi di euro di ricchezza “rispuntata fuori” dopo mesi, a volte anni. E la stessa dinamica si è ripetuta anche nel primo trimestre 2025, con una crescita dello 0,3% superiore alle stime iniziali. Dati che possono cambiare radicalmente la percezione di un Paese: da stagnante a dinamico, da problematico a resiliente.
Il cuore del problema: il terziario sottovalutato
Il settore terziario, che include servizi, consulenza, turismo, commercio, tecnologia, cultura, rappresenta oltre il 70% del PIL italiano. Eppure, è anche il meno misurabile. Non ci sono catene di montaggio da monitorare, né materie prime da contare. Spesso il valore si genera online, in modo frammentato, in micro-attività sparse sul territorio.
Secondo Cipolletta e De Nardis, la statistica ufficiale è ancora troppo legata ai vecchi modelli industriali. L’industria viene misurata meglio perché ha dati più chiari, mentre i servizi “sfuggono” agli algoritmi, generando una distorsione sistematica. Il risultato? L’Italia appare meno produttiva e competitiva di quanto sia davvero.
Un problema globale, ma con ricadute locali
Anche a livello internazionale, la questione è sotto osservazione. Una recente inchiesta dell’Economist ha definito la misurazione dell’economia immateriale come una vera e propria palude dei dati. Le imprese digitali partecipano poco alle rilevazioni statistiche, i flussi sono meno tracciabili, le informazioni più frammentarie. Questo porta a un paradosso: più l’economia si evolve, meno i numeri riescono a starle dietro.
Revisioni e polemiche: quanto valgono davvero i dati?
Non è la prima volta che accade. Dal 1987, il PIL nominale italiano è stato rivisto in media del 18%. Nel 2014, l’inclusione dell’economia sommersa e illegale nelle stime portò a un balzo del 3,7%. Il problema è che queste revisioni, pur giustificate, arrivano sempre dopo, modificando a posteriori il racconto di un Paese. E spesso è troppo tardi per correggere la narrazione pubblica e le decisioni politiche che ne sono derivate.
Italia contro Germania e Francia: davvero siamo indietro?
Il confronto con Germania e Francia mostra un’Italia più povera in termini di PIL pro capite e produttività apparente. Ma cosa succede se quei numeri sono sottostimati? Se, ad esempio, il valore aggiunto dei servizi italiani fosse misurato con la stessa accuratezza dei settori industriali tedeschi, la distanza si ridurrebbe sensibilmente. L’Italia è più forte di quanto sembri, ma i dati continuano a penalizzarla.
Industria e servizi: due pesi, due misure
Il dato è eclatante: nel settore industriale, l’indice di produzione si basa su 9.500 flussi mensili da 5.700 imprese. Nei servizi, invece, la raccolta dati è molto più debole. E non si tratta solo di quantità, ma anche di qualità: mentre nell’industria la produzione ad alto valore aggiunto rappresenta il 17%, nei servizi questo valore è spesso invisibile agli occhi della statistica.
Politiche pubbliche su basi fragili
Dati sbagliati, o sottostimati, possono portare a scelte sbagliate. È successo al momento dell’entrata nell’euro, quando si pensò che le imprese italiane stessero perdendo competitività, mentre stavano in realtà puntando su prodotti più sofisticati e a maggior margine. L’errore nella lettura dei dati influenzò politiche pubbliche, investimenti e clima sociale.
Oggi il rischio è lo stesso: se l’economia italiana viene letta al ribasso, le politiche di sostegno rischiano di essere insufficienti, i settori innovativi non vengono valorizzati, gli investitori internazionali si tengono alla larga.
Una nuova cultura del PIL
Serve un cambio di passo. Non solo nella misurazione, ma anche nella comunicazione. I numeri vanno letti, interpretati e spiegati. Le revisioni devono essere viste come un miglioramento della conoscenza, non come segno di incertezza. E bisogna imparare a riconoscere che l’Italia oggi genera valore in forme nuove, complesse, non sempre visibili.
Per affrontare questa sfida, servono investimenti nella statistica pubblica, nella digitalizzazione dei dati, nella collaborazione tra istituzioni, imprese e università. Solo così si potrà ricostruire una narrazione più realistica e positiva del Paese.
L’Italia che vale (più di quanto pensiamo)
L’economia italiana non è ferma. Sta solo cambiando pelle. E mentre lo fa, sfugge agli strumenti di misura tradizionali. Continuare a leggere il presente con occhiali del passato significa sbagliare diagnosi e, quindi, terapia. Per crescere davvero — e non solo nei numeri — l’Italia ha bisogno prima di tutto di essere misurata meglio. E raccontata meglio.Solo così potrà tornare a credere in sé stessa e attirare quella fiducia che troppo spesso le viene negata.